“L’Amore è sempre amore per il nome” Hungry Hearts- Commento psico-cinematografico

Hungry Hearts è un film drammatico diretto da Saverio Costanzo tratto dal romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso. È stato presentato in concorso al Festival di Venezia del 2014, dove ha vinto due Coppe Volpi per le interpretazioni di Adam Driver e Alba Rohrwacher.

Hungry Hearts è un film molto complesso, sia da un punto di vista tecnico che umano. Il regista sfrutta molti accorgimenti tecnici cinematografici, come la scelta di luoghi chiusi e oppressivi, per cui lo spazio diventa radiografia del sentire, o il ricorrere ai piani sequenza (quello iniziale), all’uso di lenti deformanti, che sottolineano l’incedere dell’ossessione di Mina, e alla scelta di posizioni di ripresa che spesso non sono “realistici”, ma esprimono punti di vista distorti.

La storia che racconta è una parabola ossessiva, a cui noi iniziamo ad assistere dall’incontro dei due protagonisti: il senso di prigionia e oppressione parte dal bagno fetido di un ristorante di bassa categoria. La maestria tecnica che il regista esprime concorre a rappresentare in maniera fortemente emotiva i mondi interni dei personaggi, soprattutto di Mina, che risultano difficilmente narrabili in altro modo.

I temi trattati sono attuali e antichi: la solitudine legata alle difficoltà della maternità, la “corruzione” del mondo moderno, la difficoltà degli uomini di trovare un ruolo paterno adeguato al mondo che è cambiato, l’ideologia contro il proprio sentire. Il regista ha scelto di dare solo pennellate e accenni rispetto alla storia pregressa ma anche a quella che si svolge sotto i nostri occhi, e infatti ci propone lunghi salti temporali espressi da uno schermo nero, in linea con il buio che gradualmente cala sulla felicità dei neo genitori.

Questo favorisce la possibilità per gli spettatori di poter fare una riflessione generale sulle tematiche proposte e non solo di rimanere agganciati ai dati personali di una storia sola. Di Mina non sappiamo praticamente nulla. Sappiamo che è sola. Ha perso la madre a due anni e non ha più rapporti col padre. Non ha amici o persone di riferimento affettivo. Sembra soffrire di una profonda solitudine interiore, che non le consente di fare spazio serenamente all’ALTRO, sia il marito o il figlio. Durante la gravidanza il suo corpo non si fa morbido, come è tipico della madre accogliente, il suo narcisismo non le permette di amare l’altro come diverso e inter-indipendente , ma solo di subirlo o di trattarlo come proprietà. Questo modo di intendere la maternità è certo relativo al nostro tempo, in cui si vogliono “far figli senza accorgersene”, senza fermarsi, cambiare, rinunciare.

Il filosofo e sociologo Zygmund Bauman ci ricorda che: La nostra è un’epoca nella quale i figli sono, prima di ogni altra cosa e più di ogni altra cosa, oggetti di consumo emotivo. Gli oggetti di consumo soddisfano i bisogni, desideri o capricci del consumatore e altrettanto fanno i figli. I figli sono desiderati per la gioia dei piaceri genitoriali che si spera arrecheranno il tipo di gioie che nessun altro oggetto di consumo, per quanto ingegnoso e sofisticato, può offrire.

Questo investimento fortemente narcisistico verso i figli provoca, in personalità particolarmente fragili o prive di una rete di supporto adeguata, l’adesione a protocolli o regole in maniera rigida e poco ragionata. Mina è una madre preoccupata e insicura a tal punto da dover aderire totalmente e coerentemente a delle idee, perché la sintesi di una posizione condivisa con il marito, significherebbe un confronto e una capacità di affidarsi che Mina non può reggere.

La preoccupazione eccessiva può nascere dal fatto che la madre proietta sul figlio la maledizione materna della sua stirpe di cui si nutre il suo fantasma inconscio. I fantasmi materni influenzano così pesantemente il desiderio materno, da renderlo impossibile. La madre proietta la sua angoscia direttamente sul figlio, senza filtri simbolici.

Sembra che la maternità non sia vissuta come gioia ma come minaccia alla propria integrità narcisistica. Il veganesimo è solo una delle tante manifestazioni della paranoia di Mina. Non a caso non deriva affatto da un amore o un rispetto per le altre creature viventi, ma soltanto dalla voglia di proteggere la purezza del proprio corpo e di quello di suo figlio. Come commenta il regista stesso “il cibo è il tema apparente del film: in realtà si parla di ideologia, che è il vero demonio dell’umanità. L’ideologia è sorda, non ascolta nessuno, pensa di essere sempre nel giusto e si chiude per questo nel suo castello incantato. Per il personaggio di Mina, la purezza diventa ideologia, questo è il suo unico errore e non le buone intenzioni di far mangiare bene il bambino, cioè con prodotti sani”.

Mina vuole far crescere suo figlio nella purezza, difendendolo da tutto. E non solo, maniacalmente, dagli spigoli dei mobili, ma anche da esami medici, luce del sole, carne e derivati animali, mani sporche. Jude la ama, prova a seguirla, ma ad un certo punto la situazione diventa insostenibile, il bambino non cresce, anzi, non può crescere. Comincia così a formarsi una frattura sempre più grande nella coppia, lei che non si sposta un millimetro dalle sua posizioni e lui che cerca in tutti i modi non solo di salvare il bimbo, ma l’intera famiglia. Nel film non si ascolta mai il nome di questo bambino, che non assume mai la posizione di figlio, e non viene così mai riconosciuto come individuo a sé stante, rimanendo quasi una “cosa”, un elemento al pari di altri nella storia rispetto alla storia. La funzione materna non riguarda il prendersi cura universalmente, ma una cura che sa riconoscere il carattere insostituibile del figlio. “L’Amore è sempre amore per il nome”, diceva Lacan, inteso come la specificità di quell’individuo, non c’è amore senza un oggetto di amore. Ma questo bambino non ha nome, come spesso accadeva e ancora accade in qualche luogo, in cui i nomi ai bambini venivano dati con tempi ritardati rispetto alla nascita,  perché la mortalità infantile era molto alta, e, solo dando un nome, riconoscendo l’altro come identità autonoma, si può iniziare ad amarla davvero.

Le ossessioni, anche quelle più devastanti e distruttive, molto spesso non nascono da qualcosa di sbagliato ma, al contrario, da propositi ed emozioni delle più belle e pure. Il desiderio di Mina di poter offrire il meglio al figlio, si trasforma nella necessità ossessive di de-contaminare tutto quello con cui viene in contatto, compreso il padre. La solitudine è una condizione interiore e il radicale cambiamento imposto da gravidanza e maternità possono aver provocato un’onda d’urto molto forte nel suo precario equilibrio psichico, che peraltro non sappiamo quanto fosse realmente stabile.

Il cordone ombelicale non è solo un elemento fisiologico. È fatto di sensibilità, di cultura, di influssi sociali tra i quali è sempre più difficile discernere. I cuori affamati del titolo sempre più spesso rischiano di divorare, con la pretesa dell’amore, ciò che dovrebbe costituire il senso del loro stesso pulsare.

Leggi di più sul mio lavoro: sostegno psicologico nella pro-creazione.

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